Un Mantra per Cenerentola/o

Essere in tinta, intonata, che se ci hai le scarpe nere non puoi avere una borsa marrone, e il rosso non va bene col verde, e le righe sono carine solo sulle tinte unite, e così via… è una vera fissazione di famiglia, ma anche una tradizione molto molto italiana. Vestirsi bene in Italia era un’arte nazionale alla quale si dedicava moltissimo tempo nell’educazione di una bambina. Il solo giro per negozi con mamma prendeva tanti pomeriggi. Va aggiunto che alla mancanza cronica di disponibilità finanziarie doveva seguire, oltre ai sospiri del tipo: “quello-non-possiamo-permettercelo-perché-troppo-caro”, un’attenta considerazione cui seguiva, infine una soluzione economica e creativa. Se si usano i fiori messi sul tailleur, allora mi ricordo che nella scatola in soffitta ce n’erano e ne avanzano ancora di bellissimi e neri, ereditati dalla zia Carola, potrebbero stare benissimo sulla giacca dell’anno scorso, se quest’anno si usa tanto il viola, perché non tingere in viola e dintorni tutte quella camicie bianche che non portiamo più?.

Ma mamma una giacca di pelliccia non se l’è mai fatta mancare, perché lei veniva da un mondo di inverni freddi davvero, dove il pelo costava meno di un cappotto di lana e gli imbottiti non erano ancora inventati. Almeno una giacca di gatto ce l’aveva ogni qualvolta la precedente non era più tanto rappezzatile. Poveri quei miciotti: fino agli anni’70 non avevano la stessa considerazione di ora, visto che molta gente, come me, li considera come surro-gatti di figli, e poi di fratelli, sorelle, amanti, ecc…..

Per anni ho portato cappotti di pelle di montone rovesciata, parendomi questo animale meno simpatico, più democratico, consentito perché commestibile, più caldo e con la pelliccia che non si vede consumarsi tanto velocemente.

Ma una giacca di pelliccia mamma me la impone a 33 anni, (che non mi fece soffrire tanto devo ammettere) di opossum double-face, leggerissima e svasata. Che il mio amante di una vita mi ha ricordato di come io la portassi nuda, in un albergo di Firenze, da frigo, e lui mi scopava con le tette che emergevano dalla pelliccia dentro e fuori che ancora questa immagine ce l’ha ancora negli occhi e altrove.

Peccato a non essere zoccola, come sosteneva Dario, che secondo lui e nell’etica della sua famiglia, bisognava farla fruttare e invece guarda, senza sicurezze, a proclamare spesso, ora, come nella mia infanzia, che “quello-non-possiamo-permettercelo-perché-troppo-caro”.

Il copione di vita non è acqua, e smontarlo e rimontarlo proprio tutto non è facile.

Ma un’altra pelliccia mi è arriva nell’inverno 1994. Un Inverno sfigato, dopo la guerra del Golfo, la lira in crisi , l’Italia che sta per fallire, i pazienti che non avevano soldi per farsi curare e tutti gli strizza-cervello che si crucciavano per tasse inusitate.

Mi lamento (tendenzialmente lamentona, lo ammetto) “quest’anno non posso comprarmi un cappotto”. Dopo pochi giorni Katia, un’amica messicana bella come una principessa indiana e spiritosa come una comica di Zelig, arriva con una pelliccia morbida e lunga quasi come un cappotto 7/8, e buttandomela sulla sedia dell’ingresso dice: “tienila tu che io le pellicce le odio e questa non voglio vederla più perché era della mia matrigna”. Alla matrigna, senza figli, Katia deve il fatto di essere stata riconosciuta dal suo babbo miliardario, solo a 30 anni, dopo la dipartita della “strega”.

Travolta dalla sorpresa, dalla commozione e dalla perplessità “ma sei sicura?” non penso a fare altre domande. Mi venne solo: “O mio dio”, “nessun marito, amore o amante mi ha mai fatto regali del genere”, e così via.

Mia madre poi tocca e commenta: non è visone, né rat musqué però è proprio calda, folta e leggera. Calda quanto mai, forse anche troppo, visto che vivo a Roma, e la pelliccia è un aggeggio da usare una decina di volte l’anno.

Passano 3 anni inverni e un’associazione di Singles mi invita a un convegno a Vicenza.

Dio-cosa-mi-metto????

In un posto di ricconi dove l’autista che ti manda l’organizzazione veste pantaloni di vigogna finissima, giacca di cachemire e paltò di cammello firmato. Va bene, li avrà comprati in fabbrica a un terzo del prezzo, ma in genere questo (era) lo standard, l’idea di arrivare con l’anonima pelliccetta e incrociare signore con visoni impalpabili mi faceva fare un film di me, Cenerentola, alla corte del principe senza ausilio di fate, e la gente che commenta “Poveretta quella lì”.

Anche una giornalista a me sconosciuta fin lì, che partecipava anche lei all’evento, viene da Roma. Incontrata e presentateci sul treno mi dice: “Caspita che pelliccia di zibellino!!!!”, “Cosa???”, “Ma si, guarda la foltezza del pelo, e il colore: è zibellino russo, il più caro!”.

Da allora ho dovuto fare più attenzione e lasciare la pelliccia in custodia invece che semplicemente nell’armadio con l’antitarmico.

La morale di questa storia, se vogliamo che ci sia, è che si conferma che Cenerentola è un complesso corredato da lamento “poverina me: senza cappotto, senza la pelliccia giusta, più povera degli altri, ecc..!”

L’idea è solo nel mio copione, dentro i miei pensieri. Anche se avessi avuto in testa un diadema di diamanti di Elisabetta d’Inghilterra, sarei stata dubbiosa sul mio valore, di me, come fosse il diadema più economico tra le casate reali, se non di strass.

Morale

Allora se anche tu, donna o uomo che sei, soffri di questa sindrome, è meglio che: smetti il lamento e cominci da oggi a praticare il mantra “sono ricca/o” e “sono bella/o” , almeno 40 volte al giorno, qualunque straccio, coccio, latta, vetro, strass o stress, auto, bici e motociclo hai sopra o sotto di te.